lunedì 29 giugno 2009
sabato 27 giugno 2009
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giovedì 18 giugno 2009
Silvia Berselli_Ugo La Pietra al Frac
Ugo La Pietra, boutique Altre Cose, Milano 1969 (con Paolo Rizzato e Aldo Jacober)
Fino al 21 giugno il FRAC Centre di Orléans dedica i suoi spazi ad Ugo La Pietra, artista poliedrico in grado di esprimersi come clarinettista jazz, come architetto, come pittore, redattore di riviste d’avanguardia, cineasta, scultore, designer…ed in questa occasione anche come curatore. Se sembra difficile rappresentare in una sola esposizione una produzione tanto varia, che sotto diverse forme si protrae dagli anni Sessanta fino ad oggi, è l’artista stesso a fornirci diverse chiavi di lettura che evidenziano i temi ricorrenti ed i nodi cruciali all’interno del suo percorso.
Lo scenario che accompagna la formazione di Ugo La Pietra è quello della Milano di fine anni Cinquanta, con i caffè di Brera popolati da artisti come Fontana, Manzoni, Sordini, Castellani, Dadamaino; è grazie a questa rete di relazioni che La Pietra, tra il ‘62 ed il '63, è tra i fondatori del Gruppo del Cenobio, all’interno del quale sviluppa la sua passione per la ricerca segnica. Negli stessi anni, La Pietra studia Architettura presso il Politecnico di Milano ed è allievo di Vittoriano Vigano, che lo conduce nella direzione di una visione brutalista della costruzione. Date le premesse formative, appare difficile comprendere come sia stato possibile accomunare per tanto tempo l’opera di Ugo La Pietra a quella di collettivi quali Archizoom e Superstudio sotto un’unica quanto riduttiva etichetta “radical”.
L’equivoco risale probabilmente alla celeberrima mostra Italy: The New Domestic Landscape tenutasi al MOMA di New York nel 1972, una occasione preziosa che tende però a ridimensionare l’apporto dei singoli individui per valorizzare l’azione collettiva nel tentativo di definire una linea di tendenza nazionale; l’esposizione monografica del FRAC, corroborata da un eccellente catalogo, si propone oggi di restituire all’artista una sua collocazione originale, in grado di prendere le distanze dalle correnti artistiche coeve.
Chi si avvicina alla mostra di Ugo La Pietra con un solido bagaglio di preconcetti in materia di “architettura radicale” è costretto a rivedere rapidamente le proprie posizioni: infatti non troviamo esposti rassicuranti totem del design circondati da una grafica pop da set di moda, ma oggetti oscuri, ad un primo approccio affascinanti ed al tempo stesso inintelleggibili. Le opere di Ugo La Pietra non vogliono essere facili; la vicinanza dell’autore alle esperienze dell’arte concettuale le carica di un potenziale ignoto alle avanguardie radicali, mentre l’ironia che sottende tutta la ricerca dell’autore rende accettabili allo spettatore anche le considerazioni più destabilizzanti. Forse uno degli apporti più densi del lavoro di Ugo La Pietra è dato proprio dalla sua capacità di proporre allo spettatore un’esperienza che mette in discussione alcune idee date per certe, senza fornire nuove certezze sostitutive, e dalla sua disinvoltura nel ricondurre questa riflessione sul piano ludico, in modo da offrire al visitatore il valore aggiunto dato da un sorriso consapevole.
Salire su Il commutatore. Modello di comprensione, ideato nel 1970, significa accettare di vedere la realtà da un nuovo punto di vista, sotto una prospettiva che porta in evidenza quello che normalmente viene censurato dai paraocchi statici della vita quotidiana. L’opera fa parte del Sistema disequilibrante ed è stata scelta per l’affiche dell’esposizione, tenendo presente la descrizione che ne fornisce lo stesso autore: “Questo particolare oggetto può essere considerato come lo strumento emblematico di tutto il mio lavoro di ricerca sull’ambiente urbano. Molte volte, attraverso il suo uso, ho visto cose che non erano di immediata lettura, molte volte l’ho fatto usare ad altre persone. Uno strumento di conoscenza, quindi, e propositivo; realizzato in un momento in cui il cosiddetto “design radicale” costruiva oggetti evasivi ed utopici”.
L’esposizione suddivide il percorso dell’artista in momenti distinti, a cui dedica altrettanti spazi: il fil rouge che mette in evidenza la coerenza evolutiva delle opere esposte è dato dalla consequenzialità logica della ricerca, espressa attraverso gli slogan coniati da Ugo La Pietra, come il celeberrimo “Abitare è essere ovunque a casa propria”, e ripetuti ad accompagnare uno stesso concetto, sia esso espresso attraverso un disegno, una maquette, una performance o una pellicola.
La prima sezione introduce un tema caro all’autore, quello della sinestesia delle arti, attraverso il progetto di una Casa per uno scultore, concepita per Carmelo Cappello e destinata ad insediarsi sul tetto di un edificio milanese di dodici piani, a circa quaranta metri di altezza. Il forte chiaroscuro dei disegni accentua il carattere brutalista di questa architettura-scultura in cemento armato, in grado di evocare analoghe esperienze d’oltralpe, come la Casa senza fine di Frederick Kiesler, la chiesa-bunker realizzata a Nevers da Claude Parent e Paul Virilio o i capolavori di André Bloc1. Rispetto alle opere citate, la singolarità della Casa per uno scultore risiede nel suo essere sostanzialmente un parassita urbano che si insedia all’interno di un contesto consolidato e si prepara ad insediarvi i germi della diversità, della critica, del dubbio. La Milano del boom economico è una città frenetica e positivista, animata dall’utopia di una crescita infinita sia sul piano economico che su quello sociale, una città in cui l’artista ama immergersi, ma dalla quale sa prendere una distanza critica. È questo forse il ruolo dell’artista, questo saper essere al contempo all’interno della società per comprenderla ed agire, ma abbastanza distante per non perdersi nelle quotidianità; abbastanza in alto per osservare lontano, ma non tanto da non essere visto.
Se possiamo considerare il progetto di apertura della mostra come un’allegoria ancora velata del ruolo dell’artista, la produzione di Ugo La Pietra evolve in una direzione sempre più pragmatica ed interventista con le Immersioni (1967-70), esperienze individuali guidate, volte a prendere coscienza del rapporto uomo-ambiente e dei condizionamenti che ne derivano. L’artista realizza e mette a disposizione del pubblico strumenti che amplificano le percezioni; grazie a questi dispositivi lo spettatore passa attraverso microambienti in metacrilato trasparente, di cui sono stati realizzati i modellini in occasione della mostra, per ritrovarsi immerso in uno spazio di sperimentazione audiovisiva animato da proiezioni, luci e suoni. Analogamente l’Immersione nell’acqua e l’Immersione nel vento sottopongono lo spettatore-attore, protetto da un casco trasparente, ai capricci degli elementi naturali, racchiusi in un contenitore sospeso.
La Casa telematica presentata a New York nel 1972 anticipa il sogno, oggi realizzato, di connettere la realtà domestica ad una rete globale di informazioni, mentre I gradi di libertà (1969-75) costituiscono un’indagine attenta del sistema di itinerari preferenziali percorsi dagli abitanti reali di una città in opposizione alla genericità della pianificazione urbanistica tradizionale. Dalle incursioni sempre più frequenti nella periferia milanese, Ugo La Pietra riporta l’insegnamento delle Riconversioni progettuali (1976-79), che lo conducono in seguito alla riflessione su Interno/Esterno (1977-80). Attraverso un sapiente accrochage di materiali di scarto, oggetti d’uso comune ed arredi urbani, La Pietra realizza Attrezzature urbane per la collettività, come un letto che ha per testate le transenne spartitraffico, nello spirito di un moderno e fantasioso clochard che desidera sentirsi “ovunque a casa propria”.
Sorprendente è la molteplicità dei supporti a cui l’artista affida le sue riflessioni, nate dal terreno fertile della sua formazione ibrida e non certo convenzionale: dai disegni alle maquettes, dai prototipi ai documentari video, dalle sculture agli happenings. In particolare la performance è per l’epoca uno strumento d’avanguardia, un meccanismo che aziona un processo di sensibilizzazione collettiva che forse possiamo considerare l’anello di congiunzione tra arte e progettazione architettonica partecipata, nella misura in cui entrambe implicano un forte impegno nel sociale. Il ’68 milanese segna la formazione di numerosi architetti, come Renzo Piano o Giancarlo De Carlo, che hanno sperimentato la partecipazione per poi prendere strade diverse: Ugo La Pietra ha saputo unire a queste esperienze gli strumenti della ricerca artistica contemporanea, che investe il campo emozionale dei singoli individui.
Ugo La Pietra, Decodificazione urbana, Milano 1975 con Vincenzo Ferrari
L’ultima sezione della mostra è dedicata alle pubblicazioni realizzate da Ugo La Pietra e testimonia la capacità dell’artista di rinnovare un mezzo di comunicazione tradizionale, attraverso l’introduzione di una grafica pungente e di slogan orecchiabili in grado di veicolare rapidamente un messaggio senza essere mai banali. L’esposizione si inserisce in maniera armonica all’interno del percorso critico portato avanti dal FRAC Centre di Orléans, una fondazione decentrata rispetto ai percorsi consolidati dell’arte contemporanea, che, grazie all’impulso conferito da Frédéric Migayrou, dal 1991 orienta la propria collezione nella direzione dell’architettura sperimentale e raccoglie riflessioni apparentemente distanti, ma accomunate da una costante volontà di ricerca nella direzione del progetto. Oggi è Marie-Ange Brayer a portare avanti la missione del FRAC Centre, attraverso eventi volti a sponsorizzare il lavoro di giovani artisti ed architetti emergenti, che usufruiscono del palcoscenico internazionale di Archilab, e mediante la valorizzazione della ricerca fruttuosa ed ancora troppo poco nota svolta da figure poliedriche come Ugo La Pietra.
L’impegno e la grazia di questo artista “a tutto tondo” continuano a sorprenderci.
Silvia Berselli
sabato 6 giugno 2009
venerdì 5 giugno 2009
Pietro Derossi/Gruppo Strum
L'intervista, cosi come tutte quelle che verranno pubblicate nel blog, fanno parte del progetto di ricerca sui protagonisti dell'architettura radicale italiana da me condotta dal 2005 al 2008. L'intero progetto uscirà in dvd a settembre 2009.
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mercoledì 3 giugno 2009
La città fluida
Nel 1966 Firenze viene sommersa dall'acqua, fu la prima volta che i fiorentini videro galleggiare gli edifici che perdevano la loro massa smaterializzandosi. Questa catastrofe naturale contribuì a formare un'immagine diversa della città, una città liquida e fluida che in parte determinò la nascita di Archizoom e Superstudio.
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