venerdì 4 novembre 2011
Massimo Ilardi_Il contesto politico italiano
Una trasformazione sociale e antropologica travolgente quella esplosa nella società italiana tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento quando il paese fu spinto da una forte crescita dell’apparato produttivo a mutare completamente ‘volto e anima’. Il cambiamento profondo da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale, con la formazione di grandi concentrazioni urbane e produttive e con gli imponenti movimenti migratori dal sud verso il nord, dissolse abitudini e costumi antichi, modificò culture e mentalità, impose figure e aggregati nuovi, significò, pur tra mille squilibri sociali e territoriali, per le classi popolari e contadine, una integrazione senza precedenti nel corpo sociale del paese pagata al prezzo altissimo ma necessario della perdita dei tratti essenziali della loro identità storica.
Al centro di queste trasformazioni stava appunto il grado superiore del capitalismo industriale, e cioè la grande fabbrica meccanica che diventava un punto di riferimento irrinunciabile per qualsiasi analisi sul mutamento. Ma al centro ci furono anche le formidabili lotte operaie che iniziarono alla Fiat nel ’62, si protrassero per tutto il decennio fino a culminare nell’autunno caldo del ’69 provocando una rottura definitiva nel vecchio equilibrio politico e sociale. Alla testa di queste lotte c’era la nuova figura dell’operaio-massa, dequalificato e senza professione, che ridimensionava drasticamente l’importanza politica e l’entità numerica dell’operaio professionalizzato. All’interno della fabbrica veniva attaccata e demistificata l’etica del lavoro e la sua gerarchia: gli operai chiedevano aumenti salariali uguali per tutti, la categoria unica, la parità con gli impiegati. L’identità operaia è data dai comportamenti di lotta e non più dal mestiere o dal ruolo svolto dentro il ciclo della produzione.
Questa forte conflittualità operaia dilagò presto negli altri settori della società, trascinò tutto il paese ad allinearsi a questa seconda rivoluzione industriale, e infine coinvolse un forte movimento studentesco che cominciò a funzionare come cassa di risonanza di quelle lotte. La grande fabbrica fu quindi il motore di questo processo di trasformazione che spezzò le inerzie di un sistema produttivo arretrato che fino a quel momento riproduceva al proprio interno modi di produzione e di consumo analoghi a quelli delle strutture precapitalistiche.
Di fronte a questa rivoluzione sociale innescata dalla classe operaia e dall’iniziativa di un capitalismo dinamico e aggressivo, alcuni settori del movimento operaio cercarono di rinnovare i loro strumenti teorici per essere in grado di leggere questa fase e di tradurla in azione politico-istituzionale. Da qui la riscoperta della teoria marxista portata avanti in quegli anni da alcune riviste (Quaderni rossi e Classe operaia) che si posero in maniera critica nei confronti dell’esperienza politica e ideologica del movimento operaio organizzato, con l’obiettivo di ritornare alla vera essenza del marxismo “spogliandola di tutte le mistificazioni che un uso puramente filosofico vi aveva incrostato, e rifacendone uno strumento teorico per la prassi.” (A.Asor Rosa). La tesi era che “quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, cioè quanto più penetra e si estende la produzione di plusvalore relativo, tanto più necessariamente si conclude il circolo produzione-distribuzione-scambio-consumo, tanto più cioè si fa organico il rapporto tra produzione capitalistica e società borghese, tra fabbrica e società, tra società e Stato.” Di conseguenza, “è lo stesso sviluppo capitalistico che tende a subordinare ogni rapporto politico al rapporto sociale, ogni rapporto sociale al rapporto di produzione, ogni rapporto di produzione al rapporto di fabbrica.” Allora, l’unica contraddizione insolubile del capitalismo stesso “è la classe operaia dentro il capitale: o meglio lo diventa, dal momento in cui si autorganizza come classe rivoluzionaria.” Il rafforzamento organizzativo della classe operaia è dunque essenziale perché “la catena si spezzerà non dove il capitalismo è più debole, ma dove la classe operaia è più forte.” (M.Tronti).
Ma l’ipotesi, che vedeva la classe operaia, nei punti più alti del suo sviluppo, un soggetto capace di varcare quel passaggio storico e politico che si chiama rivoluzione, fallì. Che le lotte operaie determinassero lo sviluppo capitalistico non voleva dire che quelle lotte potessero aprire un processo rivoluzionario. Né che si presentava agli operai la possibilità concreta di farsi Stato o partito. Non sono stati né l’uno né l’altro. Il forzare questi passaggi, il piegare a un uso strategico la lotta operaia andava proprio contro “ciò che é” la classe operaia. La “rude razza pagana” non fece il salto oltre il meccanismo della rivendicazione salariale non perchè le mancò la forza ma perchè il suo nemico vero era il lavoro e non il capitale, o, meglio, il capitale in quanto lavoro. In quegli anni, la sua stessa fuoriuscita politica dal capitale, la sua trasformazione da forza-lavoro a classe operaia, si é dispiegata tutta dentro la fabbrica proprio perchè la sua soggettività si esprimeva nella intensità delle forme di lotta (passività, assenteismo, cortei interni) che nascevano all’interno del rapporto di produzione, dentro l’organizzazione della catena di montaggio. La fabbrica e solo la fabbrica era il suo terreno di lotta, la “messa in forma” operaia della organizzazione politica. Non a caso, la rivolta di Piazza Statuto rimase un episodio isolato che confermava la regola. Il ‘rifiuto del lavoro’ e il ‘salario come variabile indipendente’, e cioè le pratiche della sua autonomia rispetto al capitale, si esprimevano, dunque, sul terreno della fabbrica e si misuravano sui risultati materiali che riuscivano a raggiungere (più salario e meno lavoro).
Dalla fabbrica al territorio: negli anni ’70 il passaggio non sarà in mano alla classe operaia. Altre figure sociali, altrettanto rudi e pagane, attraverseranno la metropoli ma non avranno più né la fabbrica né il lavoro al centro della loro azione. Per questo il ’77 non chiude la stagione dei movimenti ma apre il tempo delle rivolte metropolitane sul consumo. Ma dire consumo non vuol dire, anche qui, rinchiudere quei soggetti dentro puri meccanismi economici. C’é tutto un lavoro da fare sul rapporto ostile e non risolto tra mercato e consumo, sui conflitti che scatena, sulla crisi che produce nelle regole e nell’ordine del sistema.
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Radical City
E' la città lo spazio di rappresentazione e sperimentazione delle teorie espresse dall'architettura radicale italiana. Dopo la mia prima ricerca, “Dopo la rivoluzione. Azioni e protagonisti dell'architettura radicale italiana”, in cui facevo parlare i diretti protagonisti, in questo nuovo numero di archphoto2.0 ho pensato di trattare il tema della città radicale. Ovvero quel luogo dove si sono alternate le sperimentazioni teoriche e pratiche dei radicals. Questo spostamento del punto di vista consente di leggere in modo nuovo l'architettura radicale comprendendo l'intero movimento ed evitando di procedere per singoli frammenti, a mio avviso riduttivi della potenza teorica dei radicals.
L'obiettivo è scrivere una pagina nuova, in quanto mai scritta, della storia dell'architettura partendo dal contesto politico e culturale degli anni sessanta. Le rivolte studentesche per una migliore didattica nelle università, le occupazioni, gli scioperi, l'ondata rivoluzionaria proveniente da Berkeley, il People Park, la nascita della pop art in Inghilterra, la crisi dell'architetto dopo la fine del movimento moderno, la de-strutturazione del linguaggio, l'attraversamento disciplinare tra arte, architettura, musica, teatro hanno determinato quel sottofondo culturale nel quale è nata l'avventura radicale. Avventura che si è sviluppata a Firenze, Torino e Milano, creando legami con altri movimenti della neo-avanguardia architettonica in Austria (Pichler, Haus Rucker, Coop Himmelblau) e UK (Archigram, Cedric Price).
Firenze è stato uno dei centri di sviluppo del movimento grazie ai due Leonardi: Ricci e Savioli che, insieme a Eco e Konig, hanno consentito lo svilupparsi delle teorie radicali ma occorre ricordare Torino con la figura di Pietro Derossi e i suoi legami con l'arte povera, mentre a Milano Ugo La Pietra, Sandro Mendini, Ettore Sottsass e Fernanda Pivano.
Se da un lato i primi progetti sono rimasti nella dimensione teorica per alcuni come Archizoom, Superstudio, Strum in un ambiguo rapporto col design che, col passare del tempo, ha assunto sempre maggiore importanza dopo la consacrazione internazionale nella mostra, curata da Ambasz al Moma nel '72 “Italy: the new domestic landscape”; ad eccezione degli Zziggurat ultimo gruppo radicale. Per altri come UFO, Gianni Pettena, Ugo La Pietra e 9999 il terreno della sperimentazione teorica/pratica è stata la piazza;uno spazio adatto alle installazioni e alle performance usando lo stesso linguaggio degli artisti. Ma soprattutto il luogo del contatto diretto con gli studenti e le loro proteste contro l'accademia e il sistema dominante, fatto che ha caratterizzato lo svolgimento delle opere degli UFO, capitanati da Lapo Binazzi, che tra gonfiabili e performance hanno declinato in modo mirabile il rapporto tra semiologia e architettura. Lo spazio pubblico diviene il luogo del confronto tra artisti e radicals, come accade a Campo Urbano (ideato da Luciano Caramel a Como nel '69) dove La Pietra, Pettena+Chiari e Paolini si ritrovano; e ancora il dialogo tra Robert Smithson e Gianni Pettena. Ma c'è uno spazio che rappresenta l'unica possibilità per un architetto degli anni sessanta di esprimere il concetto di modernità: la discoteca. Ogni architetto radicale ne progetta una. A Firenze i Superstudio realizzano il Mach2, mentre i 9999 fanno la disco più nota, lo Space Electronic che gestiscono ospitando concerti di gruppi emergenti inglesi, happening e performance del teatro sperimentale. La disco Bamba Issa degli UFO a Forte dei Marmi e il ristorante Sherwood a Firenze, la boutique Altre Cose con annessa disco Bang Bang di La Pietra a Milano. Il piper di Torino progettato e gestito da Pietro Derossi che diventa un ritrovo per l'arte povera. Questo nuovo scenario legato all'entertainment ha un padre nell'architetto Leonardo Savioli che, ispirato dai suoi assistenti tra i quali Adolfo Natalini, fa suo il tema della discoteca nel corso di arredamento e architettura degli interni alla facoltà di architettura di Firenze; non è un caso che gli autori del Piper di Roma siano stati suoi allievi. Un altro aspetto importante dell'epoca è la presenza di pubblicazioni auto prodotte: dalle fanzine degli Archigram a In e In più di La Pietra, fino al catalogo col pelo dei 9999 per un evento allo Space Electronic con i Superstudio. Ma sono le riviste come AD e Casabella a promuovere la nouvelle vague della sperimentazione dove emerge la figura di Sandro Mendini che rivoluziona il modo di fare la rivista inventandosi di volta in volta le copertine, affidando alle immagini un ruolo espressivo centrale.
L'architettura radicale che ha mosso i primi passi dalle avanguardie storiche dada, futurismo ed espressionismo ha condizionato la storia dell'architettura nel silenzio della storiografia ufficiale rappresenta ancora oggi un tesoro da scoprire e analizzare. Con questo numero di archphoto2.0 si vuole riscrivere la storia fornendo un'ulteriore punto di vista da cui ripartire per nuove utopie realizzabili.
Emanuele Piccardo
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