venerdì 25 maggio 2012
Teoria_Gruppo Strum, La città intermedia (1972)
La città intermedia da un senso al nostro ruolo. Come militanti e come tecnici, per partecipare alla costruzione della città intermedia, intendiamo essere presenti con il nostro bagaglio di nozioni, pronti a rispondere alle esigenze che le lotte pongono, a suggerire strumenti e comportamenti che ci sembrano efficaci ed opportuni dal nostro punto di vista.
La nostra specializzazione disciplinare ogni giorno deve fare i conti con la realtà delle lotte e confrontare le direzioni di sviluppo del nostro discorso, radicato nella storia borghese, con le necessità concrete di difesa e di promozione di una strategia complessiva portata avanti dalla classe operaia con la sua lotta.
*I fotoromanzi: La città intermedia, Utopia e Lotta per la casa furono fatti in due versioni in italiano allegati a Casabella e in inglese. Furono concepiti per la mostra del MoMa organizzata da Emilio Ambasz nel 1972 dal titolo Italy:the new domestic landscape
Gruppo Strum
Torino 1972
Pietro Derossi
Giorgio Ceretti
Carlo Giammarco
Riccardo Rosso
Maurizio Vogliazzo
Teoria_Zziggurat, Città lineare (1969)
“Il progetto Città Lineare-proposta di corridoio urbano- è prima di tutto un materiale visivo di idee con significati politico culturali alternativi alla crescita urbana della città esistente come polo turistico nazionale.
Come ‘manifesto’ politico il corridoio urbano fatto di infrastrutture, spazi pubblici e nuove tipologie abitative intende collegare fisicamente i quartieri periferici, ad alto sviluppo demografico, con la parte più abbiente e turistica del centro storico da cui sono socialmente e culturalmente esclusi. Le grande scalinate, i gradoni delle coperture degli edifici sono di uso pubblico facilmente e sempre accessibili dall’interno ad un’altezza da terra che permetta la vista di un’architettura storica appena conquistata”.
Giuliano Fiorenzoli
Zziggurat
Firenze 1968
Alberto Breschi
Giuliano Fiorenzoli
Roberto Pecchioli
Teoria_Archizoom, No Stop City (1970-71)
Diagrammi abitazioni omogenee
“La No Stop City, introducendo su scala urbana il principio della luce e dell’areazione artificiale, evitava il continuo spezzettamento immobiliare tipico della morfologia urbana tradizionale:
la città diventava una struttura residenziale continua, priva di vuoti e quindi priva di immagini architettoniche. I grandi piani attrezzati, teoricamente infiniti, o dei quali il perimetro non interessava assolutamente, penetrati da una griglia regolare di ascensori, potevano essere liberamente organizzati secondo funzioni diverse o secondo forme di aggregazione sociale nuova.
Il traffico, la cui organizzazione territoriale veniva separata dalla forma urbana, poteva ricevere soluzioni ottimali:
la No Stop City garantiva la macchina sotto casa e il massimo possibile di concentrazione demografica”.
Andrea Branzi
Archizoom
Firenze 1966
Andrea Branzi
Gilberto Corretti
Paolo Deganello
Massimo Morozzi
Lucia Morozzi
Dario Bartolini
(Archivio CSAC, Parma)
Teoria_Superstudio, Monumento Continuo (1969)
Story board per il film sul Monumento Continuo pubblicato su Casabella n.358/1971
“Nel progetto il Monumento Continuo, Superstudio si interroga con una immagine su quale mai differenza ci sia tra l’utopia quantitativa della griglia razionale di Coketown e l’utopia “negativa” del Monumento continuo che si staglia sullo sfondo delle casette, sovrastandole come un infinito grattacielo disteso. Così l’immagine finale della sequenza riproduce una vista aerea del M.C. che attraversa la penisola di Manhattan, lasciando un vuoto “archeologico” dal quale spuntano come rovine un fascio di grattacieli attorno al mitico Empire State, a testimonianza di come la città del moderno fosse ancora luogo di contraddizioni non composte dalla forza omologante della tecnica e della scienza”.
Cristiano Toraldo di Francia
Superstudio
Firenze 1966
Adolfo Natalini
Cristiano Toraldo di Francia
Roberto Magris
Piero Frassinelli
Alessandro Poli
Alessandro Magris
domenica 29 aprile 2012
Radical City_il progetto curatoriale
Il tema che viene affrontato è la città come spazio di sperimentazione delle teorie espresse dall'architettura radicale italiana attiva dal 1963 al 1973, per molti anni esclusa dalla storia dell'architettura ufficiale, ad opera di Archizoom, Superstudio, UFO, Gianni Pettena, Ugo La Pietra, Pietro Derossi/Strum, 9999, Zziggurat. La mostra, curata dal critico di architettura Emanuele Piccardo, si pone l'obiettivo di riscrivere una pagina importante dell'architettura italiana che ha influenzato le generazioni future di progettisti da Zaha Hadid a Bernard Tschumi, da Rem Koolhaas a Winy Maas. La mostra è suddivisa in quattro aree tematiche: il contesto, la teoria, la piazza, la discoteca.
Il contesto nel quale si inserisce l'architettura radicale, termine coniato all'epoca dal critico Germano Celant, è quello degli anni Sessanta: la rivoluzione sessuale, il cambio di gusto dei giovani, l'invenzione della minigonna, le occupazioni delle Facoltà universitarie per una migliore didattica, gli scioperi e le lotte operaie contro i padroni, l'ondata rivoluzionaria proveniente dal campus californiano di Berkeley e le proteste contro la guerra in Vietnam. Inoltre risulta fondamentale il pensiero di alcuni intellettuali come Henry Lefebvre e il suo Diritto alla Città o i Quaderni Rossi di Mario Tronti. Non secondaria è stata la crisi del ruolo dell'architetto nella società con la fine del Movimento moderno, così come la nascita di nuove correnti artistiche in Italia, come l'Arte povera, l'Arte cinetica e programmata, in Europa con la Pop Art in Inghilterra; la Land Art, l’Arte concettuale e l'invenzione dell'happening, ad opera di Allan Kaprow, negli USA.
Zziggurat, Città lineare, Firenze 1969
La teoria viene espressa dai progetti teorici dei gruppi radicali che rappresentano la deriva della metropoli degli anni Sessanta nella logica del mercato e del consumo, ancora oggi prepotentemente in atto. Verranno presentati i progetti del Monumento Continuo dei Superstudio, la No Stop City degli Archizoom, la Mediatory City del Gruppo Strum e la Città lineare degli Zziggurat.
UFO, Urboeffimero, Firenze 1968
La piazza è lo spazio pubblico per eccellenza dove si manifesta il conflitto sociale e politico. Viene eletta dai radicali come luogo per sperimentare nuove forme di rappresentazione del conflitto attraverso modalità e azioni vicine alle performance e agli happening degli artisti. Ancora oggi la piazza è ritornata centrale per l'affermazione della propria identità e del desiderio di libertà. In questa sezione verranno presentate le opere di UFO, Gianni Pettena, Ugo La Pietra e 9999.
Pietro Derossi, Giorgio Ceretti,Piper Pluriclub, Torino 1966
La discoteca
La discoteca è quel luogo dove i giovani possono esprimere la loro creatività al pari dei coetanei inglesi e americani. E' lo spazio del coinvolgimento sensoriale che viene progettato e realizzato da gran parte degli architetti radicali, a partire dal corso di Arredamento e Architettura degli Interni che Leonardo Savioli conduce alla Facoltà di Architettura di Firenze. Pietro Derossi realizza a Torino il famoso Piper Pluri Club; Superstudio il Mach2 e i 9999 lo space Electronic a Firenze mentre gli UFO realizzano il Bamba Issa in Versilia, e Ugo La Pietra il Bang Bang a Milano.
L'avventura architettonica radicale si è sviluppata a Firenze, che è stato il centro propulsore, anche per il grande numero di gruppi e singoli architetti che hanno animato il movimento, ma soprattutto per il sostegno di Leonardo Ricci e Leonardo Savioli che, insieme a Umberto Eco e Giovanni Klaus Konig, hanno sostenuto dall'interno dell'accademia universitaria, l'onda del cambiamento generazionale; successivamente il movimento si è sviluppato a Torino dove emergeva Pietro Derossi e i suoi futuri compagni del gruppo Strum (Ceretti, Giammarco, Vogliazzo, Rosso), grandi animatori culturali, quando nel 1969 organizzarono il convegno Utopia e/o Rivoluzione, al quale parteciparono, tra gli altri, Paul Virilio, Yona Friedman, Paolo Soleri e i francesi Utopie. Contemporaneamente a Milano operava come radicale Ugo La Pietra e con finalità differenti, più da promotori e divulgatori del movimento, Ettore Sottsass e Fernanda Pivano attraverso la rivista Pianeta Fresco e Alessandro Mendini, prima nella direzione della rivista Casabella e poi di Domus.
Un altro aspetto importante della cultura alternativa dei Sessanta è stata l'autoproduzione di pubblicazioni e pamphlet, che artisti e architetti radicali realizzavano in occasione di eventi ed happening e dei quali la mostra renderà la giusta visibilità.
In contemporanea all'esposizione sono previsti incontri e conferenze pubbliche sui temi della mostra e la loro attualità nel dibattito politico e architettonico contemporaneo.
In occasione della mostra Radical City nel prossimo mese di settembre 2012 si terrà presso il The Florence Institute of Design International un workshop tra gli studenti della scuola e gli architetti radicali a cura di Lapo Binazzi ed Emanuele Piccardo.
Info www.florence-institute.com
Radical City_la mostra
Radical City il tema affrontato dalla rivista archphoto2.0 si trasforma in mostra. Un esperimento che consente di trasformare dei contenuti bidimensionali, cartacei, in tridimensionali spaziali. A partire dal 30 maggio fino al 30 giugno si terrà presso l'Archivio di Stato di Torino (Piazza Castello 209) l'omonima mostra da me curata e realizzata dalla Fondazione Ordine Architetti di Torino e dall'associazione culturale plug_in, editore di archphoto.it e archphoto2.0.
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lunedì 12 dicembre 2011
Radical City alla Triennale di Milano
Giovedì 24 novembre 2011 si è svolto nel bookshop Skira della Triennale a Milano la presentazione del numero 1 di archphoto2.0 dedicato alla Radical City. Hanno partecipato Gianni Pettena, Ugo La Pietra, Emanuele Piccardo, ha moderato la conversazione la storica e critica Elisa Poli. Il tema trattato è stato il ruolo delle riviste della controcultura negli anni Sessanta e il passaggio dal web al cartaceo nel caso di archphoto2.0 vai al video
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venerdì 4 novembre 2011
Massimo Ilardi_Il contesto politico italiano
Una trasformazione sociale e antropologica travolgente quella esplosa nella società italiana tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento quando il paese fu spinto da una forte crescita dell’apparato produttivo a mutare completamente ‘volto e anima’. Il cambiamento profondo da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale, con la formazione di grandi concentrazioni urbane e produttive e con gli imponenti movimenti migratori dal sud verso il nord, dissolse abitudini e costumi antichi, modificò culture e mentalità, impose figure e aggregati nuovi, significò, pur tra mille squilibri sociali e territoriali, per le classi popolari e contadine, una integrazione senza precedenti nel corpo sociale del paese pagata al prezzo altissimo ma necessario della perdita dei tratti essenziali della loro identità storica.
Al centro di queste trasformazioni stava appunto il grado superiore del capitalismo industriale, e cioè la grande fabbrica meccanica che diventava un punto di riferimento irrinunciabile per qualsiasi analisi sul mutamento. Ma al centro ci furono anche le formidabili lotte operaie che iniziarono alla Fiat nel ’62, si protrassero per tutto il decennio fino a culminare nell’autunno caldo del ’69 provocando una rottura definitiva nel vecchio equilibrio politico e sociale. Alla testa di queste lotte c’era la nuova figura dell’operaio-massa, dequalificato e senza professione, che ridimensionava drasticamente l’importanza politica e l’entità numerica dell’operaio professionalizzato. All’interno della fabbrica veniva attaccata e demistificata l’etica del lavoro e la sua gerarchia: gli operai chiedevano aumenti salariali uguali per tutti, la categoria unica, la parità con gli impiegati. L’identità operaia è data dai comportamenti di lotta e non più dal mestiere o dal ruolo svolto dentro il ciclo della produzione.
Questa forte conflittualità operaia dilagò presto negli altri settori della società, trascinò tutto il paese ad allinearsi a questa seconda rivoluzione industriale, e infine coinvolse un forte movimento studentesco che cominciò a funzionare come cassa di risonanza di quelle lotte. La grande fabbrica fu quindi il motore di questo processo di trasformazione che spezzò le inerzie di un sistema produttivo arretrato che fino a quel momento riproduceva al proprio interno modi di produzione e di consumo analoghi a quelli delle strutture precapitalistiche.
Di fronte a questa rivoluzione sociale innescata dalla classe operaia e dall’iniziativa di un capitalismo dinamico e aggressivo, alcuni settori del movimento operaio cercarono di rinnovare i loro strumenti teorici per essere in grado di leggere questa fase e di tradurla in azione politico-istituzionale. Da qui la riscoperta della teoria marxista portata avanti in quegli anni da alcune riviste (Quaderni rossi e Classe operaia) che si posero in maniera critica nei confronti dell’esperienza politica e ideologica del movimento operaio organizzato, con l’obiettivo di ritornare alla vera essenza del marxismo “spogliandola di tutte le mistificazioni che un uso puramente filosofico vi aveva incrostato, e rifacendone uno strumento teorico per la prassi.” (A.Asor Rosa). La tesi era che “quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, cioè quanto più penetra e si estende la produzione di plusvalore relativo, tanto più necessariamente si conclude il circolo produzione-distribuzione-scambio-consumo, tanto più cioè si fa organico il rapporto tra produzione capitalistica e società borghese, tra fabbrica e società, tra società e Stato.” Di conseguenza, “è lo stesso sviluppo capitalistico che tende a subordinare ogni rapporto politico al rapporto sociale, ogni rapporto sociale al rapporto di produzione, ogni rapporto di produzione al rapporto di fabbrica.” Allora, l’unica contraddizione insolubile del capitalismo stesso “è la classe operaia dentro il capitale: o meglio lo diventa, dal momento in cui si autorganizza come classe rivoluzionaria.” Il rafforzamento organizzativo della classe operaia è dunque essenziale perché “la catena si spezzerà non dove il capitalismo è più debole, ma dove la classe operaia è più forte.” (M.Tronti).
Ma l’ipotesi, che vedeva la classe operaia, nei punti più alti del suo sviluppo, un soggetto capace di varcare quel passaggio storico e politico che si chiama rivoluzione, fallì. Che le lotte operaie determinassero lo sviluppo capitalistico non voleva dire che quelle lotte potessero aprire un processo rivoluzionario. Né che si presentava agli operai la possibilità concreta di farsi Stato o partito. Non sono stati né l’uno né l’altro. Il forzare questi passaggi, il piegare a un uso strategico la lotta operaia andava proprio contro “ciò che é” la classe operaia. La “rude razza pagana” non fece il salto oltre il meccanismo della rivendicazione salariale non perchè le mancò la forza ma perchè il suo nemico vero era il lavoro e non il capitale, o, meglio, il capitale in quanto lavoro. In quegli anni, la sua stessa fuoriuscita politica dal capitale, la sua trasformazione da forza-lavoro a classe operaia, si é dispiegata tutta dentro la fabbrica proprio perchè la sua soggettività si esprimeva nella intensità delle forme di lotta (passività, assenteismo, cortei interni) che nascevano all’interno del rapporto di produzione, dentro l’organizzazione della catena di montaggio. La fabbrica e solo la fabbrica era il suo terreno di lotta, la “messa in forma” operaia della organizzazione politica. Non a caso, la rivolta di Piazza Statuto rimase un episodio isolato che confermava la regola. Il ‘rifiuto del lavoro’ e il ‘salario come variabile indipendente’, e cioè le pratiche della sua autonomia rispetto al capitale, si esprimevano, dunque, sul terreno della fabbrica e si misuravano sui risultati materiali che riuscivano a raggiungere (più salario e meno lavoro).
Dalla fabbrica al territorio: negli anni ’70 il passaggio non sarà in mano alla classe operaia. Altre figure sociali, altrettanto rudi e pagane, attraverseranno la metropoli ma non avranno più né la fabbrica né il lavoro al centro della loro azione. Per questo il ’77 non chiude la stagione dei movimenti ma apre il tempo delle rivolte metropolitane sul consumo. Ma dire consumo non vuol dire, anche qui, rinchiudere quei soggetti dentro puri meccanismi economici. C’é tutto un lavoro da fare sul rapporto ostile e non risolto tra mercato e consumo, sui conflitti che scatena, sulla crisi che produce nelle regole e nell’ordine del sistema.
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Radical City
E' la città lo spazio di rappresentazione e sperimentazione delle teorie espresse dall'architettura radicale italiana. Dopo la mia prima ricerca, “Dopo la rivoluzione. Azioni e protagonisti dell'architettura radicale italiana”, in cui facevo parlare i diretti protagonisti, in questo nuovo numero di archphoto2.0 ho pensato di trattare il tema della città radicale. Ovvero quel luogo dove si sono alternate le sperimentazioni teoriche e pratiche dei radicals. Questo spostamento del punto di vista consente di leggere in modo nuovo l'architettura radicale comprendendo l'intero movimento ed evitando di procedere per singoli frammenti, a mio avviso riduttivi della potenza teorica dei radicals.
L'obiettivo è scrivere una pagina nuova, in quanto mai scritta, della storia dell'architettura partendo dal contesto politico e culturale degli anni sessanta. Le rivolte studentesche per una migliore didattica nelle università, le occupazioni, gli scioperi, l'ondata rivoluzionaria proveniente da Berkeley, il People Park, la nascita della pop art in Inghilterra, la crisi dell'architetto dopo la fine del movimento moderno, la de-strutturazione del linguaggio, l'attraversamento disciplinare tra arte, architettura, musica, teatro hanno determinato quel sottofondo culturale nel quale è nata l'avventura radicale. Avventura che si è sviluppata a Firenze, Torino e Milano, creando legami con altri movimenti della neo-avanguardia architettonica in Austria (Pichler, Haus Rucker, Coop Himmelblau) e UK (Archigram, Cedric Price).
Firenze è stato uno dei centri di sviluppo del movimento grazie ai due Leonardi: Ricci e Savioli che, insieme a Eco e Konig, hanno consentito lo svilupparsi delle teorie radicali ma occorre ricordare Torino con la figura di Pietro Derossi e i suoi legami con l'arte povera, mentre a Milano Ugo La Pietra, Sandro Mendini, Ettore Sottsass e Fernanda Pivano.
Se da un lato i primi progetti sono rimasti nella dimensione teorica per alcuni come Archizoom, Superstudio, Strum in un ambiguo rapporto col design che, col passare del tempo, ha assunto sempre maggiore importanza dopo la consacrazione internazionale nella mostra, curata da Ambasz al Moma nel '72 “Italy: the new domestic landscape”; ad eccezione degli Zziggurat ultimo gruppo radicale. Per altri come UFO, Gianni Pettena, Ugo La Pietra e 9999 il terreno della sperimentazione teorica/pratica è stata la piazza;uno spazio adatto alle installazioni e alle performance usando lo stesso linguaggio degli artisti. Ma soprattutto il luogo del contatto diretto con gli studenti e le loro proteste contro l'accademia e il sistema dominante, fatto che ha caratterizzato lo svolgimento delle opere degli UFO, capitanati da Lapo Binazzi, che tra gonfiabili e performance hanno declinato in modo mirabile il rapporto tra semiologia e architettura. Lo spazio pubblico diviene il luogo del confronto tra artisti e radicals, come accade a Campo Urbano (ideato da Luciano Caramel a Como nel '69) dove La Pietra, Pettena+Chiari e Paolini si ritrovano; e ancora il dialogo tra Robert Smithson e Gianni Pettena. Ma c'è uno spazio che rappresenta l'unica possibilità per un architetto degli anni sessanta di esprimere il concetto di modernità: la discoteca. Ogni architetto radicale ne progetta una. A Firenze i Superstudio realizzano il Mach2, mentre i 9999 fanno la disco più nota, lo Space Electronic che gestiscono ospitando concerti di gruppi emergenti inglesi, happening e performance del teatro sperimentale. La disco Bamba Issa degli UFO a Forte dei Marmi e il ristorante Sherwood a Firenze, la boutique Altre Cose con annessa disco Bang Bang di La Pietra a Milano. Il piper di Torino progettato e gestito da Pietro Derossi che diventa un ritrovo per l'arte povera. Questo nuovo scenario legato all'entertainment ha un padre nell'architetto Leonardo Savioli che, ispirato dai suoi assistenti tra i quali Adolfo Natalini, fa suo il tema della discoteca nel corso di arredamento e architettura degli interni alla facoltà di architettura di Firenze; non è un caso che gli autori del Piper di Roma siano stati suoi allievi. Un altro aspetto importante dell'epoca è la presenza di pubblicazioni auto prodotte: dalle fanzine degli Archigram a In e In più di La Pietra, fino al catalogo col pelo dei 9999 per un evento allo Space Electronic con i Superstudio. Ma sono le riviste come AD e Casabella a promuovere la nouvelle vague della sperimentazione dove emerge la figura di Sandro Mendini che rivoluziona il modo di fare la rivista inventandosi di volta in volta le copertine, affidando alle immagini un ruolo espressivo centrale.
L'architettura radicale che ha mosso i primi passi dalle avanguardie storiche dada, futurismo ed espressionismo ha condizionato la storia dell'architettura nel silenzio della storiografia ufficiale rappresenta ancora oggi un tesoro da scoprire e analizzare. Con questo numero di archphoto2.0 si vuole riscrivere la storia fornendo un'ulteriore punto di vista da cui ripartire per nuove utopie realizzabili.
Emanuele Piccardo
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lunedì 18 aprile 2011
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