Caro Emanuele
Vista la tua temeraria decisione di aprire un blog sull’Archi. Rad. ti mando un piccolo contributo della serie Amarcord partendo da cose avvenute al riguardo in questi giorni, qui a Torino.
Come ti avevo detto, un paio di settimane fa (martedì 5 maggio 2009) hanno inaugurato una piccola mostra di cose radicali di UFO, Archizoom, Pettena e Superstudio alla Galleria Martano e il giorno dopo, alla Facoltà d’Architettura, si è tenuto un incontro dibattito sul tema, presenti Binazzi, Pettena e Frassinelli.
Sono andato ad entrambe le cose e ti relaziono un po’ su cosa ho visto.
Il tutto mi è parso abbastanza deludente, a parte il piacere di rivedere Lapo e il Pettena dopo 35 anni e di rivederli in ottima forma.
Per il resto picche. La mostra è decisamente povera. Lì la colpa è della galleria che sulla cosa evidentemente non ha investito una lira senza aver la più pallida idea di cosa aveva sotto mano: tanto per dire, anche solo la saletta che ho visto un paio di anni fa al Beaubourg, pur con molta meno roba, mi è sembrata molto più ricca ed efficace.
Quanto al dibattito, mah?! Le persone più quadrate e a posto mi sono sembrate proprio Lapo, Pettena e Frassinelli. Tutti gli altri intervenuti, detto fuori dai denti, mi son parsi non sapere bene di cosa stavano parlando. Cercherò di mettere a fuoco un paio di problemi.
Si continua a parlare di fiorentini e basta. Un po’ è anche colpa loro che già quando li frequentavo 35 anni fa pretendevano di spacciarsi come unici e inimitabili. Così facendo però si perde completamente di vista la dimensione reale del fenomeno. All’incontro dell’altro giorno Pettena ha anche cercato un po’ di dirlo, ma con non sufficiente convinzione e con molto poco seguito. I radicali fiorentini sicuramente hanno rappresentato la punta di diamante dell’Archi. Rad. e in Italia sono di certo quelli che l’hanno qualificata nella maniera più vistosa, ma se si dimentica che eventi di quel tipo, più o meno a rimorchio, o più o meno autonomi, avvenivano anche a Milano, Torino o nelle facoltà di architettura occupate, si perde davvero la bussola e non si capisce più niente.
A Torino, come ti avevo raccontato quando eri venuto a trovarmi, già nel 1969, in occasione di Utopia e/o Rivoluzione, avevamo avuto occasione di vedere insieme Archizoom e Archigram, oltre ai vari, Friedman, Jungman (allora membro del gruppo Utopie), Virilio tutto vestito di nero che pontificava come un De Gaulle in sedicesimo (date le differenze di statura), Soleri – che tra l’altro proprio a Torino si era laureato – che sparava cazzate a dritta e manca. De Rossi, promotore del convegno insieme all’Unione Culturale, aveva anche provveduto a fornire una bella contestazione al tutto (usava così, se non c’era contestazione non era abbastanza in), affidata dalla neonata “Assemblea Teatro”, un gruppo di teatro di strada che poi di strada ne ha fatta molta, che aveva praticamente sequestrato i congressisti nell’aula magna della facoltà, al Valentino. Alle congressiste si offrivano mazzi di ortiche e per entrare nella sala del congresso si doveva passare sopra i corpi dei teatranti, coricati per terra a mo’ di “tappeto natura”: Gilardi già allora andava per la maggiore a Torino, ed era amico di Alberto Salza (erano vicini di casa), uno dei fondatori dell’Assemblea Teatro. Da Londra erano arrivati alcuni studenti che avevano piantato le tende (in senso letterale) nel giardino della facoltà, tra la capanna sull’albero costruita dal gruppo dei “Vikinghi” e la vasca dei pesci rossi che chiamavamo “Mao Beach”, dove Sandro Lenite si tuffava in 40 centimetri d’acqua dall’alto del suo metro e novanta e oltre di altezza. Non molto tempo dopo, al massimo un anno, si sarebbe tenuta una memorabile sessione d’esame passata alla storia come “sessione dei palloncini”. Cinquanta persone avrebbero sostenuto l’esame di Composizione architettonica II con tre progetti diversi, che non saprei se definire più sadici o più ironici. Uno dei progetti era un monumento al capitale: ne avevano costruito un modello in scala ridotta e Carlo Mollino, titolare della cattedra di Composizione, era stato invitato ad entrarci tagliando un nastro tricolore in una cerimonia di inaugurazione demenziale. Mollino non sapeva se schiumare di rabbia o se divertirsi. Credo che sotto sotto abbia avuto il sentore, per una volta, di essere superato in avanti da qualcosa che non capiva e quindi non sapeva controllare: di aver trovato degli enfants gatés più gatés di lui.
Un altro progetto era un asilo nido. Diffuso su scala territoriale era costituito di tante cellule collegate da un bambinodotto. Infilavi il bambino nel tubo, schiacciavi un bottone ed un sistema pneumatico risucchiava la creatura portandola fino al suo asilo. Gli esaminandi avevano avvertito della cosa amici e parenti invitando tutti ad intervenire, soprattutto portandosi dietro tutti i bambini piccoli disponibili, ai quali si erano regalate autentiche mongolfiere di palloncini in una baraonda micidiale. Tra i molti altri “esaminandi” spiccavano Franco Audrito, già fondatore dello Studio 65 e che poi avrebbe messo la testa a posto andando a lavorare per gli arabi sul golfo, e Mario Virano, che tutti quanti oggi sentiamo citare nei suoi tentativi – tanto improbi quanto generosi – di far quadrare le questioni valsusine tra TAV e NOTAV.
Più avanti ancora – io stavo già lavorando alla tesi sull’architettura radicale – il solito De Rossi sarebbe riuscito a trascinare a Torino un’intera colonia di londinesi targati Architectural Association. Era arrivato Boyarski, allora direttore dell’A.A., portandosi dietro Tschumi, allora docente, con Nigel Coates e Jenny Lowe, allora studenti. Da Lucca, dove stava conducendo un seminario residenziale A.A. in una villa rinascimentale, era arrivato Paul Oliver con altri studenti. E poi altri ancora. E ti cito solo alcune delle cose che ricordo, evitando per carità di patria quelle di cui ero stato protagonista io con i compagni del gruppo di cui facevo parte (che si chiamava M333).
Così a Firenze non si può dimenticare il ruolo di appoggio svolto da Savioli e da Ricci. Come non si possono dimenticare i continui viaggi a Londra o – per chi poteva – in America.
La sindrome politica che colpì quasi tutti come un’epidemia, purtroppo, ha poi cancellato tutto questo versante di quegli anni, che invece fu importantissimo e bellissimo. A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se fossimo stati capaci di insistere di più su questo aspetto culturale “floreale” del ’68, contrastando il cattocomunismo dilagante dei marxisti/leninisti alla “servire il pollo”. Saremmo riusciti ad evitare o almeno a ridurre le derive degli anni di piombo? Saremmo riusciti ad evitare la conquista sistematica di tutte le facoltà di architettura da parte della cultura da condominio dei Gabetti e dei loro innumerevoli cloni? Probabilmente no. Quello che è certo è che oggi la situazione della cultura universitaria italiana mi pare veramente catatonica. Francamente arretrata rispetto ad allora. Che le punte dell’architettura mondiale di questi ultimi vent’anni vanno tutte cercate all’estero. Che se si vuole un quadro veramente significativo e completo di quegli anni bisogna cercarlo in cataloghi francesi come “Les années pop” del Beaubourg, o inglesi come “Summero of love” della Tate Liverpool.
All’incontro dell’altro giorno Pettena ha avuto un momento di straordinaria lucidità quando rivolgendosi agli studenti presenti in sala ha fatto osservare come la vera facoltà di architettura dovrebbero essere loro, non i docenti. 35 anni fa la tesi sull’architettura radicale io e Paola dovemmo praticamente imporla alla facoltà: da studenti. Può sembrare retorico ma il diritto di imporla ce lo eravamo conquistato a spese nostre con le lotte degli anni precedenti, consapevoli proprio del fatto che “noi eravamo la facoltà di architettura”. Allora trovammo uno spirito libero come Mario Federico Roggero che accettò la nostra idea organizzandoci una sorta di coorte di supporto in cui entravano da Carlo Olmo a Maurizio Vogliazzo, da De Rossi ad Elena Tamagno, da Giammarco a Tosoni. Allora tutti assistenti, a vari titoli coinvolti nei vari passaggi londinesi di cui la facoltà era teatro. Già solo tre o quattro anni dopo un’operazione di questo tipo sarebbe stata probabilmente impossibile.
Ultima notazione poi chiudo. Nell’incontro dell’altro giorno tutti – un poco meno i fiorentini – hanno fatto un gran parlare di design. E il design di qua, e il design di là, e il design radicale ecc. ecc.
Ora quando nell’inverno tra il 1970 e il 1971 con Paola cominciammo a lavorare alla tesi, ce ne andammo a Firenze e nel giro di una quindicina di giorni incontrammo Gilberto Corretti degli Archizoom, Adolfo Natalini dietro alla sua scrivania tutta quadrettata, Gianni Pettena, poi Titti Maschietto e Lapo Binazzi nel chiostro della facoltà d’architettura dove qualche anno prima gli UFO avevano sostenuto la loro gloriosa tesi di Laurea, e ancora Fabrizio Fiumi in quella bolgia assordante che era lo Space Electronic. Ebbene per quanto mi ricordo non uno di loro pronunciò (mai) la parola design. Neppure per sbaglio. E così fu per un certo numero di altre occasioni successive. Tutti quanti, noi con loro, parlammo sempre e solo di “architettura”. Del resto, a ben pensarci, nel 1970 nelle facoltà di architettura italiana la disciplina “industrial design” neppure esisteva. E anche Italy the new domestic landscape è solo della tarda primavera del 1972. Certo si immaginava ben che quello era uno dei possibili sbocchi del discorso e la cosa interessava a dei giovani che da studenti diventavano professionisti e dovevano pensare a sbarcare il lunario anche sul piano economico. Ma perché il design diventi un vero e proprio leit motiv dei radicali – a questo punto davvero quasi solo più dei fiorentini – bisogna arrivare al momento in cui Branzi entra al centro progetti della Montefibre e alla fondazione della Global Tools. A ben guardare il design è stato la fortuna per Branzi e la tomba per l’architettura radicale nel suo insieme. Molti hanno detto – e in parte è vero – che il libro mio e di Paola nel 1974 di fatto era già un epitaffio. L’architettura radicale è tutta prima ed è – piaccia o non piaccia – architettura, non design. Come hanno capito – molto meglio degli italiani – gli austriaci, gli inglesi, e ora anche i francesi.
Dopo non mi pare sia più successo granché dalle nostre parti. E difatti i radicali, a partire dallo stesso Branzi, sono chiamati in giro a raccontare quello che avevano fatto allora. Non quello che hanno fatto dopo o che stanno facendo adesso.
Rimando eventuali altri scavi nella memoria ad altre prossime puntate.
Ciao ciao. Bruno Orlandoni
martedì 19 maggio 2009
Bruno Orlandoni, Amarcord
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ciao Bruno,
RispondiEliminaè vero, la parola "design" nessuno la pronunciava, era una deriva dell'architettura, sapeva di commerciale, facendo finta di doverla sdoganare per forza, con il senno del poi, avremmo potuto inventare un'altra parola, laurea "breve"....
titti