L’architettura radicale
di Ugo La Pietra
Al di fuori del sistema, dai primi anni '60 ad oggi, si sono avvicendate nell’architettura e nel design una serie di esperienze per molto tempo ignorate, quindi rivalutate e solo verso la fine degli anni '80 consacrate alla storia come "Architettura Radicale".
Per una serie di motivi che per semplicità chiamerò "egoistici", un gruppo di autori operanti a Firenze (vedi Pettena, Branzi, Natalini, Ufo, 999) hanno più volte e in diverse occasioni (libri, articoli, mostre) fatto iniziare questo movimento dopo la seconda metà degli anni '60: di fatto con l’inizio delle loro attività di ricerca e di progettazione.
Personalmente, già nel 1960 progettavo interventi urbani e architetture in parte ispirate a Frederick Kiesler (vedi la Casa dello Scultore Carmelo Cappello, 1961)[1] che mi fu facile confrontare con opere degli stessi anni di Hollein, Abraham, pubblicate nel libro "Architettura Radicale" di Navone e Orlandoni[2] e precedentemente in alcuni articoli di Domus.
Alla fine degli anni '50 mi consideravo vicino all’architettura brutalista di Vittoriano Viganò e a Lucio Fontana come pittore del "segno" (è del 1962 la nascita del gruppo di pittori segnici del Cenobio: Ettore Sordini, Agostino Ferrari, Arturo Vermi, Angelo Verga, Ugo La Pietra)[3]e già nei primi anni '60 con Alberto Seassaro elaboravo la teoria della “Sinestesia tra le arti”.
Queste e altre esperienze, come l’introduzione nelle mie opere (a scala dell’oggetto e a scala urbana) dell’“effetto randomico” per finire alla formulazione della “Teoria del Sistema Disequilibrante” mi collocano chiaramente come estraneo alle esperienze, dei gruppi fiorentini e dello stesso Ettore Sottsass, della seconda metà degli anni '60.
Di fatto, solo tra il 1966 e il 1967 conobbi alcuni autori fiorentini, soprattutto durante la Triennale del 1968, quando gli Archizoom si presentarono con un loro ambiente ed io realizzai l’ambiente audiovisivo "Caschi sonori".
In quegli anni le mie esperienze erano già maturate in un clima più europeo e, attraverso alcune pubblicazioni di Architecture d’Aujoudhi e Domus, mi sentivo vicino agli Haus-Ruker, alla Coop. Himmelblau, ad Hollein e Pickler; erano, questi, giovani artisti-architetti che operavano tutti alla trasformazione degli strumenti e dei metodi progettuali, una trasformazione radicale attraverso atteggiamenti geniali e provocatori, tutti tesi alla ricerca di modi per migliorare la qualità della vita nel rapporto individuo-ambiente.
Trovavo forti relazioni tra il mio lavoro e la cultura viennese, più che con quella fiorentina (nata all’ombra del maestro Ettore Sottsass con chiare influenze derivate dalla Pop-art), avendo già da alcuni anni, attraverso le varie correnti artistiche dei primi anni '60, combattuto la crescita della Pop-art che andava "colonizzando" dall’America la nostra realtà artistica.
Le mie matrici estetiche infatti, come ho già accennato, si fondavano nella pittura di Fontana e nella scultura di Milani e maturarono nella seconda metà degli anni '60 attraverso esperienze "concettuali". A queste matrici bisognerebbe aggiungere una serie di idee che assorbii proprio in quegli anni da alcuni scritti dell’Internazionale Situazionista ed un clima ormai maturo di contestazione (la mia prima occupazione nella Facoltà di Architettura risale al 1963).
Una formazione, quindi, del tutto diversa da quella dei gruppi fiorentini, che si fece conoscere dopo e con evidenti riferimenti non tanto all’arte concettuale quanto alla cultura Pop influenzata da Ettore Sottsass con il suo mondo a metà strada tra l’undeground statunitense e il recupero di certa cultura orientale.
E’ per questo motivo che spesso e volentieri "i Fiorentini" hanno fatto nascere l’Architettura Radicale italiana da Sottsass e dalle loro esperienze, dimenticando tutte le ricerche europee che si svilupparono non solo prima delle loro attività ma anche in una direzione più politicizzata, meno utopica, più direttamente provocatoria (Haus Rucker), decisamente concettuale (B. Tschumi, Saz Der Erde), molto più vicina a certe correnti artistiche di quegli anni (Pickler, Einz Franc, Hollein...) Malgrado queste profonde differenze, avevamo qualcosa in comune e questo li portò i vari gruppi in tempi brevi a partecipare e contribuire alla crescita della rivista IN (Argomenti e immagini di Design, 1971).
Quando, nel 1970, Paolo Scheggi mi chiese di far parte della redazione di IN (una nuova rivista di design che stava prendendo forma in quella stagione) io recuperai tutte le mie conoscenze, le mie passioni e i miei interessi e li riversai in questa nuova impresa. Così, attraverso il mio lavoro, prima come caporedattore poi come co-direttore, nella rivista IN (presto dimenticata a favore del ruolo che successivamente ebbe la rivista Casabella, diretta da Alessandro Mendini), penso sia nata, in una serie di operatori, la consapevolezza di far parte di un’unica area culturale.
IN dovrebbe passare alla storia come la prima rivista che si occupò in modo esauriente e per la prima volta di quest’area progettuale successivamente definita radicale, non come luogo in cui venivano registrate le varie esperienze internazionali, ma soprattutto come strumento di stimolo individuale e di gruppo.
Con numeri monografici in cui veniva richiesto ai vari autori di sviluppare teoricamente e progettualmente il proprio pensiero e successivamente con la mia direzione della rivista IN PIU’, è possibile ripercorrere le tappe evolutive dei vari autori, da Sottsass ai Libidarch, da Hollein a Salz der Herde.
Per troppi anni l’Architettura Radicale venne vista come un’area di attività e di ricerca più vicina all’utopia che non ai problemi reali (vedi il libro sulla storia del design di Vittorio Gregotti).
Ma una più attenta lettura di questa corrente progettuale, iniziata soprattutto in questi ultimi anni, sta dando molte sorprese. Molte furono le proposte e i suggerimenti per come intervenire nell’ambiente urbano; certamente non si progettavano oggetti di serie, poichè avrebbero rappresentato un’adesione al "sistema consumistico" che veniva teoricamente e praticamente osteggiato dall’ "architetto radicale". Tutto questo non portò quindi ad una vera produzione di oggetti ma a "strumenti" di conoscenza, di decodificazione, di provocazione.
Già nel 1972 su IN venivano indicate le teorie di C. Jencks sull’ "Adochismo" che anticipavano di molto tutta la cultura post-moderna e prima ancora del 1968 le mie teorie, i miei "strumenti" e le mie installazioni (vedi le "immersioni") dimostravano chiaramente il fatto di aver preso coscienza che "lo spazio in cui si viveva e si operava era la descrizione fisica del potere", ponendomi così in un atteggiamento critico nei confronti del sistema.
In questa situazione di attesa, rispetto ad una posizione di fattuale operatività, va ricordato che riuscii comunque ad operare, naturalmente con interventi che non rispondevano alla logica del sistema: la mia azione fu quella soprattutto di "disequilibrare". Disequilibrare, mediante l’analisi e la verifica delle situazioni ambientali e sociali in cui mi trovavo a vivere e operare, con una fisicità critica (distante da certe posizioni di utopia critica) intesa come strumento disvelatore delle situazioni in cui l’utilità e l’abitudine avevano creato strutture di comportamento molto rigide). Nacquero così progetti allusivi, interventi, azioni ma soprattutto un recupero di forze progettuali fino a quel tempo sconosciute come: il comportamento (l’uso del corpo), l’effimero (occupazione dello spazio, la trasgressione), la citazione (l’uso di materiali formali recuperati dalla storia, da altre culture periferiche e marginali).
Questi nuovi atteggiamenti contribuirono a sviluppare nel mio lavoro e nei lavori di altri autori una vasta ricognizione sui mezzi di espressione: il disegno, l’immagine fotografica, il videotape, il cinema, le installazioni, le perfomance e altri mezzi di espressione non furono quindi strumenti per la rappresentazione del progetto da realizzare ma costituirono momenti autonomi e "finiti" al pari del "costruito".
Ed è in nome di questo atteggiamento "aperto" che la mia ricerca negli anni '60 si arricchì di diverse esperienze, basterebbe ricordare: l’uso di nuovi materiali (attraverso la realizzazione di un laboratorio "artistico-artigianale" per la lavorazione del metacrilato), certi arredamenti dove mettevo a contatto diverse tipologie arredative (come la boutique "Altre Cose" con la discoteca "Bang Bang" a Milano), nuove tecnologie elettroniche (vedi l’uso del regolatore di intensità luminosa applicato per la prima volta nella lampada "globo tissurato" nel 1967, o il "luxofono" applicato agli ambienti audiovisivi presentati alla Galleria Toselli di Milano e nell’ambiente audiovisivo "Caschi Sonori" alla Triennale di Milano nel 1968), nuove tecnologie per l’architettura (vedi il padiglione per l’Expo di Osaka o i sistemi di prefabbricazione edilizia "Silicalcite", 1968-69), nuove tipologie di oggetti (vedi la libreria "Uno sull’altro" prodotta da Poggi, Pavia, 1968), nuove aree di esperienza e di ricerca nell’analisi sul territorio (vedi "Gradi di libertà" nelle periferie urbane, 1968-69), nuovi interventi estetici a scala urbana (vedi "Le Immersioni", "Campo Urbano" a Como, "Verso il Centro" a Milano).
La cosa curiosa e che dovrebbe far pensare è che molte esperienze che andavo presentando e che venivano accolte dall’interno del mondo dell’arte erano anche presenti a pieno diritto nel mondo dell’architettura, almeno di quell’area culturale che guardava con attenzione le esperienze di architettura radicale.
Tutto ciò ha un suo significato: sia l’arte che l’architettura in quegli anni rompevano con la tradizione e mettevano addirittura in crisi il mezzo tradizionale: la tela e la pittura per l’arte, il costruito per l’architettura.
In più le due discipline coltivavano contemporaneamente una tra le varie componenti che caratterizzano il progetto: la "concettualità", così molte esperienze dell’una venivano travasate nell’altra e viceversa.
E’ per questo che ancora negli anni '70 i miei film venivano proiettati sia nelle Facoltà di Architettura che nei Musei in mostre d’avanguardia, sotto la dizione "cinema d’artista".
E’ per questo motivo che oggi diventa difficile per i curatori delle mostre storiche presentare le esperienze di Architettura Radicale di quegli anni: di fatto la "concettualità" era nemica della "spettacolarità", così, spesso in modo improprio, oggi è più facile vedere in una retrospettiva dell’Architettura Radicale di quegli anni gli aspetti post-radicali di Alessandro Mendini piuttosto che i progetti di Picler.
Oltre al mio "Sistema Disequilibrante", diverse furono le esperienze che hanno di fatto arricchito il movimento di quegli anni: Superarchitettura per i primi progetti di Archizoom e Superstudio, Architettura Inconscia per i cataloghi di strade e paesaggi americani di Gianni Pettena, Architettura Eventuale per Almerico De Angelis, Architettura d’Animazione per i lavori di Riccardo Dalisi a Napoli, Urbanistica Vegetale per i progetti degli Street Farmers, Architettura Povera per le azioni dei Libidarch di Torino, Progettazione di Comportamento per gli UFO.
Tutte queste esperienze hanno cominciato a riemergere in alcune mostre, spesso viziate da parziali letture condizionate dal maggiore o minore "successo" che oggi alcuni protagonisti di allora hanno raggiunto. Ma a chi volesse veramente guardare con attenzione ciò che veramente era stato fatto, consiglio di rileggere i numeri di IN e IN PIU’, i bollettini della Global Tools, l’unica mostra di Design Radicale "Gli abiti dell’imperatore" (che organizzai alla Galleria Blu di Milano nel 1975, al Museum Johanneum di Graz e alla Galleria Zagreba di Zagabria) e qualche articolo d’epoca su Domus, Le Arti, Brera Flash, Fascicolo; per ora dobbiamo accontentarci di "storie dell’Architettura e del Design Radicale" truccate, rivedute e corrette, qualche volta purtroppo proprio da chi era stato testimone diretto di quei fatti.
mercoledì 27 maggio 2009
Ugo La Pietra_L'architettura radicale
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